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di Salvatore Parlagreco

Gela è stata (e lo è ancora) la cavia ideale di tanti scienziati dello sviluppo. Era una comunità agricola con una storia antica ed un presente di povertà, su cui si sarebbe potuto sperimentare “in vitro” il rinascimento del Mezzogiorno, fino ad allora oggetto di studio, indagini, inchieste, dibattiti e vane perorazioni.

La scienza dello sviluppo era in mano ad apprendisti stregoni. I quali sperimentavano se stessi. Prendersela con loro, dunque, sarebbe sbagliato, perfino ingiusto.
Si è creduto creduto nel valore sociale dell’esperimento e c’era la voglia di fare uscire il Mezzogiorno d’Italia dal cosiddetto circolo vizioso, il sottosviluppo che crea sottosviluppo.

Tra gli strumenti importanti utilizzati vanno ricordati la Cassa per il Mezzogiorno e le Partecipazioni Statali. La prima disponeva di risorse, con le quali finanziare opere pubbliche, le seconde avevano una misssion, investire nell’industria, localizzando imprese nel Sud al fine di creare posti di lavoro, e quindi reddito e progresso.

La Cassa per il Mezzogiorno non lesinò quattrini per Gela, investendo nelle infrastrutture primarie e secondarie utili alla petrolchimica (porto isola, scorrimento veloce Gela-Catania, Istituto Tecnico industriale, Villaggio residenziale ecc).

Le Partecipazioni Statali fecero miracoli, ma anche cattivi affari, finanziando aziende decotte o comunque incapaci di stare sul mercato. L’una e l’altra subirono il pressing stretto della politica, che tirava la giacca ai manager, interessati ad accontentare i potentati di turno, con uno spreco immenso di denari.

Imprenditori furbi e senza scrupoli, inoltre, riuscivano a ottenere incentivi (finanziamenti a fondo perduto) per mettere in piedi fabbriche al solo scopo di intascare le risorse. Di mausolei che ricordano la stagione delle vacche grasse si trovano ancora oggi, andando in giro, in Sicilia.
Gli episodi di malcostume non si contano.

Ma torniamo a Gela. Alla base dell’investimento nella chimica di base c’era la prospettiva che la grande fabbrica avrebbe creato spontaneamente dei satelliti (li battezzarono “effetti moltiplicativi”). A ridosso dell’Anic sarebbero dovuti nascere aziende che lavoravano la plastica. Si sarebbe passati, così, dall’industria primaria alla secondaria, inevitabilmente.

Una profezia fasulla, le imprese locali che investirono a Gela vennero disincentivate: i costi della materia prima acquistata nella fabbrica di Gela si rivelarono più alti che, poniamo, in Ungheria. Non ostante il taglio del trasporto. Un paradosso.
Le infrastrutture, come il porto isola, furono realizzate al servizio del petrolchimico, una struttura superspecializzata. La conseguenza è che Gela non ne poté, e non ne può, usufruire.

Il managment non pianificò lo sviluppo della comunità, ma quello dell’industria chimica, il cui compito principale era di trasformare il petrolio fangoso, di cattiva qualità, in prodotto economicamente valido.
Nacque il quartiere residenziale, una piccola città ai piedi della collina: rispondeva alla necessità di offrire alla forza lavoro, che sarebbe arrivata a Gela, case e infrastrutture secondarie. Risultato, Gela restava fuori dal ciclo virtuoso. La città cresceva a vista d’occhio, senza strade, fognature, scuole, sicurezza, istituzioni giudiziarie eccetera.

Due sociologhi, Hytten e Marchioni, descrissero lucidamente cosa c’era da aspettarsi dall’esperimento dell’Eni e della Cassa per il Mezzogiorno a Gela (celebre il loro libro: “Industrializzazione senza sviluppo. Il caso Gela”).

Non si può dire perciò che si giocasse a mosca cieca, tutti sapevano. Marchioni e Hytten denunciarono l’assenza di partecipazione alle scelte, la città era stata tenuta rigorosamente fuori dalle decisioni. Una ingiustizia sociale. Un mostro al fianco di Gela. Forse sarebbe stato più utile reclamare strade, scuole e fognature, invece che partecipazione democratica.

Il peccato originale dell’esperimento gelese è l’assenza della città dai piani dell’industria. Le scuole, le strade, le condotte fognarie, i servizi pubblici, i presidi di sicurezza dovevano sorgere insieme alle “isole” della fabbrica.

Non era compito dei dirigenti della fabbrica pianificare le infrastrutture primarie e secondarie della città, questo è indubbio, ma il concorso di colpa gli si può addebitare tranquillamente. I manager non si fecero scrupolo di clientelizzare alcune fasi esterne del ciclo produttivo con la conseguenza che si spalancarono le porte alle mafie. I malacarne si organizzarono e divennero famiglie di mafia. I denari della Cassa per il Mezzogiorno, investiti in appalti, attirarono come mosche i boss del palermitano e del Nisseno. E Gela divenne mafiaville. Progresso senza sviluppo, per l’appunto.

La comunità locale va assolta? Nemmeno per idea. Non è stata lungimirante, non ha capito quel che stava succedendo, ha vissuto del piccolo cabotaggio, consueto nella Sicilia dei partitini e delle correnti. Il sindacato, combatté le battaglie dell’autunno caldo. Alcuni giovani di buona famiglia, provenienti da lontano, arrivarono con il loro zaino rivoluzionario in spalla, anche loro per sperimentare a Gela. La città divenne cavia anche per loro. E continua ad esserlo. La green economy, che sarà mai?

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